Il Caso Moro al Rotary Club Pisa

IL CASO MORO: 55 GIORNI CHE CAMBIARONO LA STORIA D’ITALIA

Gianfranco Donadio, procuratore della Repubblica di Lagonegro e consulente della Seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento di Aldo Moro, ospite del Rotary Club Pisa

“Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi”. Lo scriveva Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana durante i cinquantacinque giorni della sua prigionia nel 1978. Moro fu sequestrato dalle Brigate Rosse la mattina del 16 marzo di quel 1978 e for trovato cadavere all’interno del bagagliaio di una Renault R4 rossa in via Caetani la mattina del 9 maggio successivo. E in quei cinquantacinque giorni che hanno cambiato la storia del nostro Paese di verità ce ne sono tante, forse troppe. Alcune di comodo, altre utili a chiudere rapidamente una pagina che creava disagio a chi governava, a chi stava all’apposizione, ma anche a chi praticava la “rivoluzione armata”. A quasi 46 anni il caso Moro continua ancora ad essere un caso aperto. E questo nonostante quattro processi e due commissioni bicamerali d’inchiesta. Dai mandanti, veri o presunti, agli esecutori materiali, dalla reale collocazione del covo, al “memoriale Morucci” che secondo alcuni ricostruisce una ‘verità di comodo’. E poi gli intrecci, le lettere, le telefonate: un linguaggio tutto nuovo, per molti versi creato e utilizzato da Moro stesso nei messaggi rivolti al suo stesso partito e ai suoi rappresentanti istituzionali. Istituzioni che vedono far carriera molti dei nomi citati nella storia del sequestro.

Moro che da vittima diventa poco a poco oggetto di attacchi, sempre più pesanti, da parte della stampa come dai suoi colleghi. Fino al ritrovamento del corpo: un uomo che diventa simbolo, ma soprattutto una verità che fatica a venire a galla. Tra il non detto della politica, il coinvolgimento dei servizi segreti e l’onnipresente Ior, la banca della Città del Vaticano.

Nel 2014 il governo Renzi ha permesso la desecretazione di centinaia e centinaia di atti dei nostri servizi segreti e delle forze dell’Ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza) in relazione al caso Moro. Da cui è scaturita la seconda commissione bicamerale che aveva tra i compiti quello di accertare “eventuali responsabilità sui fatti riconducibili ad apparati, strutture e organizzazioni comunque denominati ovvero a persone a essi appartenenti o appartenute”.

E le conclusioni a cui è giunta la Commissione, presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni, sulla base di nuove documentazioni, nuove audizioni testimoniali e nuove perizie hanno aperto nuovi scenari e, soprattutto, ‘’demolito’’ quella che era la verità fino ad allora attribuita al Memoriale “Morucci”. A discuterne in un incontro pubblico promosso dal Rotary Club Pisa, presieduto dal professor Federico Procchi, è stato il Procuratore Capo di Lagonegro, il dottor Gianfranco Donadio, intervistato dal giornalista e scrittore Tommaso Strambi. Ora quello che emerge potrebbe apparire lo sfondo di una grande spy story. Ci sono i servizi segreti civili e militari; ci sono i servizi segreti stranieri (la Cia, Il Mossad); c’è lo Ior, ovvero, la banca dello Stato Vaticano; c’è un traffico d’armi verso il Medio Oriente; c’è la Ndrangheta; ci sono personaggi misteriosi come ad esempio Steve Piecznik, presentato come uno psichiatra, e in realtà uno agente segreto americano; ci sono più covi; ci sono ‘’strane segnalazioni” e “strane presenze”. E, sopratutto, di tutto questo intreccio ci sono prove, testimonianze e riscontri.

Nel suo racconto il dottor Donadio si è, in particolare soffermato su tre elementi decisivi e nuovi:  la “premonizione” radiofonica; la questione dei covi e l’uccisione dell’onorevole Moro.

La “premonizione” radiofonica.

L’Operazione Frizt, come venne chiamata dalle Brigate Rosse, avvenne alle 9.02-9.04 del 16 marzo 1978. E questo è un dato certo. Ma cosa succede un’ora prima? “Poco dopo le 8 del mattino su Radio “Città futura”, Renzo Rossellini che stava conducendo la rassegna stampa, e dice una frase significativa: “forse oggi rapiranno Moro”. Perché è una fase significativa? Perché grazie agli archivi è stato possibile risalire ad un documento lasciato in un cassetto per molti mesi dopo il sequestro dello statista democristiano che ha consentito di scoprire una “centrale di ascolto occulta” alla Questura di Roma, a poche porte dall’ufficio del capo dell’antiterrorismo, Domenico Spinella”, così come ha distanza di molti anni ha confermato un funzionario della polizia Vittorio Fabrizio nel corso di una drammatica audizione in Commissione parlamentare d’inchiesta. Non solo. È emerso che quella mattina il senatore della Democrazia Cristiana, Vincenzo Cevone, aveva avvisato il Capo della Polizia che una amica della moglie aveva ascoltato alla radio la frase di Rossellini. Per questo il Capo della Polizia, invio a casa della donna “un famoso investigatore (Umberto Improta) per sentirla su quella  frase ascoltata alla radio. Ma la signora viene liquidata come adusa ad ascoltare canzonette”. Insomma non viene creduta. “Eppure alle 8.30 il capo dell’antiterrorismo, Domenico Spinella, partì con un altro funzionario e il suo autista, Biancone, alla volta del quartiere Trionfale per l’allarme di un possibile sequestro. Quindi ben mezz’ora prima che ci fosse la strage di via Fani e il sequestro dell’onorevole Moro”.

La questione dei covi

Sino ad oggi si è sempre raccontato che Aldo Moro fu tenuto prigioniero durante i cinquantacinque giorni del suo sequestro in via Montalcini 8. In una stanzetta stretta di un metro per due ricavata all’interno di un’altra stanza. Ma l’esame autoptico rivelò, fin da subito, che Il tono dei muscoli era buono, ben lontano da quello che ci si potrebbe aspettare in un uomo rinchiuso in una striscia di una stanza per quasi due mesi. Anche il giudice Rosario Priore ha sempre affermato che le condizioni del corpo post mortem testimoniano “non per una prigionia troppo rigorosa, tale da impedirne totalmente la mobilità”.

In un appunto – finora sconosciuto – inviato il 28 settembre del 1979 dal generale Giulio Grassini, direttore del Sisde, al Ministro dell’Interno, si fa riferimento a un’intercettazione ambientale in carcere, una conversazione tra detenuti, “uno dei quali di alto livello terroristico”, riguardante il sequestro, l’interrogatorio e l’assassinio di Moro. Dalla prima trascrizione del dialogo – come evidenzia Grassini – era stato possibile evincere che, secondo le parole dei detenuti, il prigioniero era stato trattato con riguardo (“Non gli hanno mai messo le mani addosso”, “Non gli è stato torto un capello”) e, in particolare, che Moro otteneva tutto ciò di cui “aveva bisogno, si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere, scriveva è stato trattato come un signore”, e aveva mantenuto, a sua volta, un atteggiamento di grande dignità. Di “un covo” posto non in basso, non in uno scantinato o al piano terra (come quello di via Montalcini 8), ma di una prigione del popolo, “che era probabilmente un appartamento borghese”, dove il prigioniero “ha avuto un trattamento confortevole”, scrisse già il 23 maggio 1978 Mino Pecorelli su OP, riferendo dei “veri” risultati dell’autopsia di Moro. Ma soprattutto dalle indicazioni di una “fonte riservata” che, già il giorno successivo al sequestro, il 17 marzo 1978, aveva avvertito il Comando della Guardia di Finanza, guidata all’epoca dal generale Raffaele Giudice, sul fatto che “le 128 dei brigatisti sarebbero state inizialmente parcheggiate in un box o garage nelle immediate vicinanze di via Licinio Calvo”, la strada dove proprio a pochi minuti dall’agguato di via Fani venne rinvenuta la 132 sulla quale venne allontanato dal luogo del sequestro lo statista dc prigioniero. La medesima strada dove le altre due auto dei terroristi, una 128 blu e una 128 bianca, appunto, vennero abbandonate, una dopo l’altra, nell’arco di tre giorni. E rileggendo le carte e ascoltando altri testimoni, la Commissione Moro 2 ha accesso i fari su un complesso residenziale di via Massimi 91 che nel 1978 era di proprietà dello Ior. Forse questo scenario – solo intuito? – condusse l’allora questore di Roma Emanuele De Francesco a ipotizzare che il primo sito di prigionia di Moro godesse di prerogative di extraterritorialità. Le palazzine dello Ior non l’avevano, non erano cioè “coperte” da immunità diplomatica, ma in un certo senso potevano essere considerate – soprattutto a quei tempi – al di sopra di ogni sospetto. Gli accertamenti sviluppati dalla Commissione Moro 2, a partire dal 2015 hanno dimostrato che mai, dal 1978 a oggi, era stato svolto un serio lavoro investigativo sul condominio di via Massimi 91. Nel complesso di via Massimi 91, tra il 1977 e il 1978 – ha scoperto la Commissione Moro 2- furono fatte modifiche abitative che sono state oggetto di recenti approfondimenti. In particolare risulta che nell’attico della Palazzina B fu realizzata una sorta di vera e propria camera compartimentata, un piccolo vano nel quale poteva tranquillamente vivere una persona, costruito sul terrazzo dell’attico e appoggiato a uno dei muri perimetrali dell’appartamento, in modo che una delle pareti era in muratura. Situata nella zona di servizio dell’appartamento, la stanza, appositamente separata da una parete di cartongesso dalla parte padronale, poteva ospitare un eventuale soggetto temporaneamente custodito nella “cameretta” con gli spazi e i servizi di un vero e proprio miniappartamento.

L’uccisione

C’è un altra cosa che è emersa negli ultimi anni è confermata dall’ex ministro ex vice segretario del Partito Socialista, Claudio Signorile, e che apre a nuovi scenari. E riguarda il ritrovamento del corpo di Moro. Finora si è detto che ad avvertire della Renault R4 in via Caetani fosse stata la telefonata di Valerio Morucci alle 12.30 al professor Giovanni Tritto, assistente di Moro.

Signorile, invece, sostiene che lui la mattina del 9 maggio alle 9.30 fosse nello studio del ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, e che a quell’ora giunse l’avviso che la “nota personalità è morta ed è in via Caetani”. Una ricostruzione che conferma quanto anticipato da Vitantonio Raso, ex antisabotatore della Polizia, l’artificiere che aprì il bagagliaio della Renault R4 quel 9 maggio 1978, nel libro “La bomba umana”,  ovvero che alti funzionari dello Stato arrivarono in via Fani ben prima delle riprese di Gbr fatte intorno alle 14 alla “prima” identificazione fatta proprio da Raso. Se questo è vero e torna con quanto affermato anche da Signorile, la telefonata di Morucci alle 12.30 fu, forse, l’estremo tentativo delle Brigate Rosse di intestarsi la morte di Moro, “quando ormai il sequestro non era più loro”.